La Macchia Mongolica

Massimo Zamboni – chitarrista, compositore e paroliere dei CCCP insieme a Giovanni Lindo Ferretti – ha scritto un libro che è una finestra sull’esistenza, a partire da un punto geografico preciso, come piace a me: la Mongolia. Il libro, scritto con la figlia Caterina, è in libreria da pochi giorni, mentre in poche sale – come sempre accade per i prodotti migliori – è in distribuzione il documentario di accompagnamento, del quale condivido il trailer.

Zamboni era già stato in Mongolia nel 1996: i CCCP erano ormai CSI, ma da quel viaggio sarebbero uscite le sonorità di Tabula Rasa Elettrificata. Lì, insieme alla moglie, sentì che l’esistenza richiedeva altra esistenza: un figlio. Vent’anni dopo, la figlia torna nel suo luogo geografico, seguendo la “macchia mongolica”, un tratto epidermico, una voglia di colore blu, diffusa nel 90% della popolazione mongola e che scompare nei primi anni di vita.

Perché siamo davvero figli delle stelle, cioè quelli che Ortega y Gasset chiamava “personaggi spaziali”. Siamo legati alla spazio, quello lontano, astronomico e siderale, e quello vicino, della Terra su cui viviamo e della terra che calpestiamo, che mangiamo, che tocchiamo.

Ma questo orizzonte lo possiamo ampliare e non siamo mai satolli di farlo: Zamboni torna in Mongolia e non la guarda più con i suoi occhi, ma con quelli di sua figlia. L’orizzonte è sempre da un punto di vista. Siamo l’orizzonte che ci diamo.

La Macchia Mongolica / The Mongolian Spot from Zona on Vimeo.

Massimo Vittorio