Édouard Boubat, insieme ad Eugène Atget, André Kertész e Brassaï, è uno dei miei fotografi di riferimento e fu uno degli emblemi della fotografia umanista. Si prestava attenzione alla quotidianità dell’esistenza, mettendone in risalto momenti apparentemente banali: ma è lì, nella piega di una pigra giornata qualsiasi, che si compie il destino di ciascuno di noi. Il peso dell’esistenza individuale, come aveva messo in risalto la generazione di intellettuali di metà Ottocento, avrebbe trovato in Gide, Rilke, Malraux, Sartre, Camus i cantori della propria imponderabilità. La Parigi 1850-1950 è stata il centro della vita in arte, letteratura, cinema, poesia, filosofia, e non si stancava di affermare quanto l’unica cosa certa della vita fosse il viverla.
C’era tutto il senso di un peso che non poteva essere pesato. Del resto, come avremmo mai potuto misurare quanto si debba soffrire? Oppure pesare quanto si possa amare? Misurare quante lacrime versare? Possiamo contare i battiti del cuore per sapere se siamo in salute, non se siamo felici. Contiamo, pesiamo, misuriamo, ma la verità è che ciò che più conta sfugge a regoli e regole. Perfino il tempo svanisce come entità misurabile quando diventa il tempo dell’esistenza e finisce per tacere, come ricordavano Bergson e Jaspers.
E dunque, che fare? Non resta che vivere.
Gide lo andava ripetendo, «ce qui échappe à la logique est le plus précieux de nous-mêmes». Non resta che fingere di pianificare la vita, attendendo di vivere ciò che capiterà mentre siamo intenti a pianificare. Sogni, paure, speranze, ricordi, amori sono i veri costruttori di quell’edificio folle, un po’ gaudiano, che prova a ergersi su fondamenta fragili, che cambia aspetto e materiali, che ambisce a toccare il cielo e che, inevitabilmente, finisce per crollare in un cumulo di macerie e memoria. Eppure è stato bello.
Ma è l’unico modo per vivere: provare a costruire il più folle degli edifici, il più autentico, il più sincero, quello aperto a ogni possibilità, a ogni materiale, a ogni idea, a ogni inquilino e a ogni storia. Quello che si innalza dai primi passi e dai primi piani e impara a guardare sempre più lontano e a ergersi sopra la confusione degli edifici tutti uguali. Sfidare quel geometra, che ammoniva di non abbattere quella parete, e quell’architetto, che dichiarava impossibile avere una terrazza vista mare e montagna. E tutte quelle persone che non credevano che le scale potessero arrivare fin su al cielo.
L’animo nobile di Rilke aveva già colto il senso del graffito immortalato da Boubat nel 1968: «Croyez-moi, la vie a toujours raison».
Donc, plutôt la vie.
Related Posts